FOCUS UCRAINA / La situazione prima del summit di Minsk

di Andrea Ferrario

Un quadro complessivo della situazione immediatamente prima del vertice di Minsk tra Germania, Francia, Ucraina e Russia: gli sviluppi militari sul terreno, il rifiuto della popolazione di mobilitarsi, l’instabilità politica in Ucraina, l’escalation delle tensioni internazionali, l’opzione delle forniture di armi da parte degli Usa, la voglia di compromesso dell’Ue e le decisioni prese dalla Nato.

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Gli ultimi sviluppi militari

Nel nostro ultimo articolo di due settimane fa, “La nuova fase del conflitto e gli interessi in gioco”, abbiamo tentato di analizzare la situazione a fine gennaio, immediatamente dopo i bombardamenti su Mariupol. In contemporanea a questi bombardamenti, nel momento in cui scrivevamo, i separatisti del Donbass avevano annunciato l’inizio di una grande offensiva. Gli sviluppi successivi hanno confermato che in effetti era stata avviata un’offensiva separatista, ma i suoi risultati sono stati ben lungi da quelli di una marcia trionfale. Innanzitutto non vi è stato alcun tentativo di avanzata sulla città marittima di Mariupol, contrariamente a quanto avevano affermato i vertici dei separatisti in contemporanea con il bombardamento della città del 24 gennaio. Più a nord, dopo avere conquistato l’aeroporto di Donetsk, le loro forze si sono subito fermate di fronte alla resistenza dell’esercito ucraino. L’accerchiamento delle forze di Kiev nella strategica sacca di Debaltsevo sembra invece ormai essere giunto quasi a completamento, secondo svariate fonti indipendenti, ma i separatisti hanno fatto molta fatica a condurlo e il prezzo pagato è stato quello di un numero altissimo di vittime con vaste distruzioni. E’ evidente che i separatisti hanno, come anche in passato, un problema di scarsi effettivi: per organizzare l’operazione a Debaltsevo, su un’area tutto sommato limitata, hanno dovuto spostarvi la parte più rilevante dei propri uomini (in larghissima parte provenienti dalla Russia). Più a est, nella regione di Lugansk, le posizioni sono del tutto ferme. Nel momento in cui scriviamo, è in atto un’offensiva delle forze ucraine da Mariupol verso Novoazovsk, secondo molti osservatori mirata principalmente a impegnare le forze separatiste sul fronte sud, alleggerendo così quello di Debaltsevo più a nord. In generale, entrambe le parti, e in particolare le forze di Kiev su Donetsk e quelle separatiste nell’area di Debaltsevo, si scambiano intensi colpi di artiglieria senza alcuna preoccupazione per la popolazione civile. Le forze di Kiev si stanno dimostrando per ora in grado di resistere in qualche modo all’attacco dei separatisti, mentre questi ultimi danno prova di essere molto ben riforniti in termini di armamenti e di proiettili di artiglieria, ma a differenza che in agosto evidentemente non godono del decisivo appoggio diretto di battaglioni della Federazione Russa, senza il quale evidentemente non possono aspirare ad alcun successo di vasta portata. Alla vigilia del summit di Minsk tra Merkel, Hollande, Poroshenko e Putin, previsto per oggi, si è avuto ieri il cruento bombardamento di Kramatorsk (finora 16 vittime confermate), lontano dalla linea di combattimento. Per le sue caratteristiche si tratta di una svolta di grande portata. Infatti, come testimoniato da un’ampia documentazione fotografica e confermato da svariate fonti, tra le quali l’Osce, il bombardamento proveniva da sud-est (cioè dalla direzione di Gorlovka, distante circa 40-50 km. e dove ci sono le ultime postazioni dei separatisti) ed è stato effettuato con missili russi Tornado “Smerch” da 300 mm. la cui gittata è di ben 120 km. Finora non era stata utilizzata un’arma di tale portata e i bombardamenti più pesanti erano stati effettuati con batterie di missili Grad o Uragan, che hanno una gittata di circa 40 km. Ieri i separatisti hanno pertanto dimostrato di essere in grado di colpire non solo obiettivi in tutto il Donbass, anche molto lontani dalla linea di combattimento, ma perfino in teoria i territori delle regioni di Zaporizhie, Dnipropetrovsk e Charkiv. Si tratta di un evento che invia un chiaro messaggio al vertice di Minsk di oggi.

Donbass - Kommersant carta focolai al 150210

Su entrambi i fronti la popolazione dimostra di non avere alcuna voglia di combattere questa guerra. La mobilitazione in Ucraina si sta rivelando in larga parte un fallimento (si vedano i particolari più sotto) e notizie ufficiali diffuse in questi giorni parlano di 10.000 militari ucraini indagati per diserzione (va precisato che 5.000 però risalgono agli eventi di Crimea di un anno fa). La mobilitazione indetta dai separatisti e mirata a reclutare 100.000 uomini, una cifra spropositata alla quale nessuno crede minimamente, sta andando completamente a vuoto, confermando per l’ennesima volta lo scarso seguito di cui godono i miliziani tra la popolazione.

L’instabilità politica a Kiev

Sul fronte politico interno delle singole parti del conflitto, nulla è cambiato in Russia e tra i separatisti, rispetto a quanto abbiamo scritto nel nostro ultimo articolo. A Kiev invece si sono registrati alcuni sviluppi rilevanti. In primo luogo, si tratta del già citato insuccesso della mobilitazione, dovuto al fatto che un numero molto alto di persone non risponde alla chiamata, e sono numerosi anche coloro che scappano all’estero per evitare di essere reclutati e mandati al fronte. Ci sono state anche piccole proteste e blocchi stradali diffusi sul territorio di tutto il paese, dall’Ucraina occidentale, fino ad Odesssa, alla capitale Kiev e alla già citata città di Kramatorsk. Un segno del nervosismo di Kiev riguardo ai rischi di una diserzione di massa dalla guerra è l’approvazione di una legge che consente ai comandanti militari di utilizzare le armi (senza limiti, quindi anche uccidendo) contro i propri soldati in caso di insubordinazione o diserzione. Un altro segno importante dell’instabilità che regna a Kiev è la mobilitazione di fine gennaio dei lavoratori del settore del carbone, che hanno tenuto manifestazioni nella capitale ucraina chiedendo tra le altre cose una revisione del bilancio statale appena approvato sotto le pressioni del Fmi, revisione che è stata promessa dalle autorità, anche se vi sono fondati motivi per dubitare che queste ultime manterranno l’impegno. L’ampliarsi di mobilitazioni con richieste di questo tipo potrebbe mettere in seria difficoltà le politiche economiche del governo di Kiev e in particolare l’aumento vertiginoso delle spese militari a danno di quelle sociali. Come se non bastasse, negli stessi giorni vi sono state manifestazioni di combattenti di uno dei più noti battaglioni di volontari, l’Aidar, accusato tra l’altro da Amnesty International di crimini di guerra, dopo che era corsa voce di un suo scioglimento. Alcune centinaia di membri dell’Aidar hanno cercato di assaltare il ministero della difesa e la residenza del presidente della repubblica. Oltre a essere un segno della forte instabilità interna, mobilitazioni di questo genere minano i tentativi di Kiev di ridurre il ruolo delle scarsamente controllabili formazioni volontarie diluendole all’interno dell’esercito. Su un altro piano, va segnalata una notizia che conferma ulteriormente il carattere controrivoluzionario e antimaidan del nuovo potere ucraino: il 27 gennaio la Rada ha approvato una legge che proibisce di applicare le norme sulla lustrazione (cioè l’estromissione dai loro incarichi di membri del regime di Yanukovich) agli alti ufficiali e funzionari del ministero degli interni, del ministero della difesa, dei servizi di sicurezza, delle forze speciali e delle forze armate. Si tratta di un’amnistia di fatto per gli apparati repressivi dell’epoca di Yanukovich, gli stessi che hanno cercato di soffocare Maidan nel sangue. In seguito alla legge è già stato ricollocato al suo posto il vice-capo di stato maggiore dell’esercito Gennadiy Borobev, che ricopriva la stessa carica ai tempi di Yanukovich.

Gli sviluppi diplomatici

Sul fronte della diplomazia internazionale e della posizione occidentale si è registrata un’improvvisa impennata delle attività e delle dichiarazioni a partire dal 2 febbraio, in seguito alle indiscrezioni pubblicate dal New York Times secondo cui nell’amministrazione americana si sta prendendo seriamente in considerazione la fornitura di “armi letali” all’Ucraina. Si tratta di uno sviluppo che avevamo anticipato nel nostro articolo del 28 gennaio, quando cercavamo di interpretare i motivi dell’inattività e dell’assenza di Washington dalla scena diplomatica da inizio dicembre. Washington ha successivamente confermato che l’opzione della fornitura di armi è all’esame. A partire dal momento in cui hanno cominciato a girare seriamente queste voci, la diplomazia internazionale ha ripreso nuovamente ad attivarsi e lo ha fatto in modo addirittura frenetico, rompendo la stasi che aveva fatto seguito al fallimento delle iniziative avviate tra Natale e i primi giorni del 2015. Naturalmente tra i motivi che hanno spinto a riprendere l’iniziativa non c’è solo la nuova posizione degli Usa, ma anche il netto aumento degli episodi cruenti ripresi dai media (Volnovacha, Donetsk e, soprattutto, Mariupol), unitamente a una situazione militare sul terreno apparentamente senza via di uscita. I grandi media hanno seguito quotidianamente con molti particolare gli sviluppi diplomatici, anche se non sempre con sufficiente precisione, e pertanto ci concentriamo sugli aspetti rimasti maggiormente in secondo piano. Innanzitutto, va notata l’assoluta fretta con cui Merkel e Hollande hanno organizzato la loro trasferta a Kiev e Mosca del 5 e 6 febbraio: il loro viaggio è stato annunciato verso mezzogiorno del 5 febbraio e i due sono giunti a Kiev verso le 18. Significativo è anche il fatto che Merkel e Hollande, dopo un lungo periodo di attrito con il presidente russo, abbiano deciso di recarsi fino a Mosca per incontrare Putin, invece di scegliere una sede più neutra. E’ interessante notare che l’1 febbraio era stata diffusa la notizia, poi smentita, di un viaggio del segretario di stato statunitense John Kerry a Mosca proprio per il 6 febbraio: è un segno che già allora, lontano dai riflettori, si era messo in moto qualcosa di molto importante.

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Il viaggio di Merkel e Hollande è stato accompagnato da una lunga serie di dichiarazioni estremamente concilianti di esponenti occidentali nei confronti di Mosca, che hanno inviato il chiaro messaggio della disponibilità dell’Occidente a venire fortemente incontro al Cremlino. Vale la pena di passarle in rassegna. Innanzitutto c’è stata la dichiarazione di Hollande appena prima della sua partenza secondo cui “per la Francia l’entrata dell’Ucraina nella Nato è indesiderabile”, una dichiarazione resa ancora più esplicita dall’aggiunta del presidente francese: “faccio questa dichiarazione specialmente per i russi, che sono preoccupati per questa eventualità”. Il giorno stesso John Kerry, che si trovava già a Kiev per un incontro previsto da tempo, non ha fatto alcuna promessa di invio di armi al governo ucraino, limitandosi a dire che il tema era oggetto di discussioni e che Obama avrebbe presto preso una decisione in merito. Kerry poi aggiungeva che “né noi, né il presidente Poroshenko, né l’Unione Europea vogliamo un conflitto con la Russia. […] La nostra scelta è quella di una soluzione diplomatica e pacifica della questione”. Il segretario di stato statunitense ha poi ricordato a Poroshenko il suo impegno “a procedere a riforme costituzionali e a provvedere allo svolgimento di elezioni nel Donbass” – si tratta di un chiaro sostegno degli Usa alla concessione dell’autonomia al Donbass, anche se non è chiaro in quale forma esatta, se cioè Washington sia favorevole o meno a una federalizzazione dell’Ucraina. Il 6 febbraio, nello stesso momento in cui Merkel e Hollande erano a colloquio con Putin, il segretario della Nato Stoltenberg pronunciava a Monaco una serie di dichiarazioni tra le righe estremamente sbilanciate su un compromesso mirato ad andare incontro al Cremlino. Stoltenberg ha innanzitutto detto che “alcuni partner della Nato non diventeranno mai membri dell’alleanza”, un chiaro riferimento all’Ucraina e alla Georgia. Il segretario Nato ha poi detto che l’alleanza “vuole riprendere la collaborazione con la Russia, che è stata in passato utile per la Nato, ma vantaggiosa anche per Mosca”, aggiungendo che in questo momento “nessuno degli alleati della Nato è esposto a una minaccia”, il che vuole dire implicitamente che l’alleanza non considera la Russia una minaccia. Il 7 febbraio alla conferenza europea per la sicurezza, Merkel si è detta categoricamente contraria a forniture di armi all’Ucraina, come d’altronde anche la Francia. Inoltre Merkel si è detta favorevole “a una grande Europa che vada da Lisbona a Vladivostok”. Si tratta di una dichiarazione significativa da una parte perché il concetto di un’Europa da Lisbona a Vladivostok non è “made in EU”, bensì è stato coniato in tale precisa formulazione per la prima volta dallo stesso Putin, e dall’altra ribadisce indirettamente l’offerta già fatta a chiare lettere il 22 gennaio da Merkel a Davos della creazione di una zona di libero scambio tra Unione Europea e Unione Eurasiatica come moneta di scambio per giungere a un compromesso riguardo al Donbass. La durata dei colloqui tra Merkel, Hollande e Putin, ben cinque ore, così come il fatto che le successive trattative si sono prolungate molto oltre il previsto, sono a parere di chi scrive una dimostrazione del fatto che sono in gioco dettagli di portata più vasta di un semplice cessate il fuoco con la definizione di una zona smilitarizzata.

La questione delle forniture di armi Usa all’Ucraina

Riguardo alla fornitura di armi da parte degli Usa all’Ucraina vanno fatte alcune considerazioni. I grandi media hanno infatti affrontato in modo superficiale la questione, come se un’eventuale decisione si potesse concretizzare immediatamente e poi andare avanti da sé senza particolari intoppi. Ci sono però svariati fattori di segno diverso da prendere in considerazione. Innanzitutto, dal punto di vista geostrategico e nel contesto particolare del conflitto ucraino, si tratterebbe di una decisione di enorme portata. Fornendo armi all’Ucraina nell’ambito di un conflitto nel quale Mosca è già intervenuta in modo diretto con le proprie forze armate su un terreno che ritiene evidentemente di propria esclusiva competenza, Washington si troverebbe di fatto coinvolta in un conflitto armato con la Russia. Si tratterebbe di un passo che ci riporterebbe a una situazione comparabile, pur fatte le debite differenze, alla crisi dei missili del 1962, con l’annesso rischio di un conflitto nucleare. Se gli Usa decideranno di assumersi un tale rischio, dopo avere mantenuto in larga parte una posizione passiva per quasi un anno nell’ambito di questo conflitto, vuole dire necessariamente che hanno piani di vasta portata per il dopoguerra, di cui però attualmente non si intravedono i segni. Inoltre, il termine “armamenti” è molto generico ed è fondamentale capire di quali armi si tratterebbe, se leggere o pesanti, da difesa o da attacco e così via. Una scelta più “morbida” vorebbe dire che le forniture avrebbero principalmente il valore di esercitare una pressione politica su Mosca piuttosto che di rovesciare i rapporti di forza, anche se ciò non toglierebbe il fatto che Usa e Russia si troverebbero, pur sotto mentite spoglie (ma non poi così tato “mentite”), a fronteggiarsi direttamente per la prima volta. Infine, è ingenuo pensare che eventuali forniture di armi sofisticate dagli Usa all’Ucraina, capaci di alterare i rapporti di forza, potrebbero avere effetti immediati – per renderle utilizzabili sarebbero necessari lunghi addestramenti delle forze di Kiev, il dispiegamento di una complessa logistica ecc., un processo che potrebbe durare molti mesi prima di diventare pienamente effettivo. In tale caso Mosca avrebbe tutto il tempo per condurre un’azione militare di ampia portata (tra l’altro facilmente giustificabile con l’imminente fornitura di armi voluta dagli Usa senza il sostegno dell’Ue), cambiando completamente la situazione sul terreno. Per tutti questi motivi riteniamo che una fornitura di armi sofisticate all’Ucraina sia da escludersi nel breve periodo. Non è invece da escludersi, se non si giungerà a un accordo di pace stabile, che Washigton possa farlo sul medio termine. Questo anche perché il contesto complessivo si è fortemente deteriorato non solo sul terreno del Donbass, ma anche a livello internazionale.

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L’escalation della tensione e le decisioni della Nato

I segnali di un tale deterioramento e dell’escalation del nervosismo sono numerosi. Per esempio, lontano dai riflettori, la Bielorussia ha recentemente decretato una mobilitazione dei riservisti, mentre poche settimane fa le autorità lituane hanno distribuito alla popolazione un manuale con istruzioni su come comportarsi in caso di invasione russa. Come era stato già stabilito in autunno, gli Usa addestreranno in primavera truppe di Kiev nell’Ucraina occidentale. Secondo indiscrezioni non confermate, verranno addestrati uomini della Guardia Nazionale ucraina e gli addestramenti riguarderanno il mantenimento dell’ordine interno. In Bulgaria molti riservisti hanno ricevuto la richiesta di presentarsi ai comandi militari al fine di verificare che siano disponibili in caso di necessita. Il paese è stato poi il primo ad annunciare la creazione di un centro di comando e di controllo della Nato: una struttura permanente di coordinazione per eventuali interventi delle forze di intervento rapido dell’alleanza che sarà composta da 20 militari bulgari e 20 militari di altri paesi Nato. In particolare, riguardo alle decisioni recentemente prese dall’Alleanza atlantica, riportate in modo incompleto o errato dai media, vale la pena di riprendere alcuni passi di una dettagliata analisi dell’esperto militare Pavel Felgengauer pubblicata dalla “Novaya Gazeta”. La Nato ha deciso di rafforzare le proprie forze di reazione rapida (Nato Response Forse, ovvero NRF) portandole da 13.000 effettivi a 30.000. Va precisato che non si tratta di una formazione a se stante dislocata in proprie sedi, bensì di uomini già precedentemente a disposizione in altri contingenti dell’alleanza, pronti e addestrati però a formare una formazione di reazione specifica nel giro di alcune settimane. Il loro centro di comando generale sarà ubicato nella Polonia occidentale. Le “forze di rapido schieramento” (Spearhead Force, ovvero SF) consisteranno in una brigata di 5.000 uomini, sempre esistente in forma “teorica”, come le NRF, ma pronta a formarsi e a intervenire con una parte dei suoi effettivi nel giro di 48 ore. Dopo un eventuale intervento, la SF può essere portata con il tempo fino a un massimo di 15.000 effettivi. Come spiega Felgenbauer, “dispersa in tempo di pace in differenti paesi e con un contingente relativamente limitato, la SF non sembra costituire una grande minaccia, ma bisogna tenere conto dell’assoluta superiorità delle forze dell’aviazione e della marina Nato. […] Inoltre, la SF non prevede alcuna presenza rilevante degli americani e sarà una formazione essenzialmente europea” composta a rotazione da soldati di Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Spagna e Polonia. I numeri rispetto ad altri interventi sono comunque per ora limitati: in Afghanistan per esempio le forze Nato avevano raggiunto i 140.000 effettivi. Al fine di coordinare l’eventuale dispiegamento della NRF e della SF verranno creati sei centri di comando: oltre a quello centrale in Polonia, gli altri saranno nei tre paesi baltici, in Bulgaria e in Romania. Non si tratterà di basi militari, come alcuni hanno scritto, ma solo di piccole strutture con un numero massimo di 50 funzionari, per metà del paese ospitante e per metà provenienti da altri paesi Nato. Rimane comunque il fatto che tali nuclei logistici saranno in grado di organizzare in tempi molto brevi un intervento militare in loco. Inoltre, si occuperanno dell’organizzazione di esercitazioni militari, che secondo i piani dovrebbero diventare d’ora in poi più frequenti. Infine, nessuna data è stata fissata per rendere operative queste decisioni – ricordiamo che dal vertice Nato del Galles, che le aveva annunciate per la prima volta in termini generici, sono passati cinque mesi e pertanto è logico ritenere che passeranno ancora svariati mesi prima che possano concretizzarsi.

Riassunto: il contesto complessivo a poche ore dal summit di Minsk

Riassumendo, la situazione sul terreno è estremamente pesante, soprattutto in termini di vittime civili, che entrambe le parti dimostrano di non avere alcuna intenzione di risparmiare. I dati sulle diserzioni e sulla fuga dalla mobilitazione in Ucraina, così come quelli sulla risposta nulla alla mobilitazione indetta dai separatisti, indicano che su entrambi i lati della barricata la popolazione non ne può più di questa guerra e la boicotta. I separatisti sono riusciti ad avanzare, ma di poco ed evidentemente questa volta senza l’intervento diretto delle forze armate russe. In compenso con il bombardamento di Kramatorsk con missili a lunga gittata (sicuramente forniti da Mosca, e non a caso in questo momento) sono riusciti ad alzare di molto la posta in gioco. L’Ucraina sembra trovarsi in una situazione interna decisamente più fragile rispetto a qualche mese fa e militarmente sembra in grado solo di reggere in qualche modo a un’offensiva dei soli separatisti, non certo di resistere a un nuovo eventuale intervento diretto della Russia o di passare all’attacco su vasta scala. Gli Usa sono ritornati prepotentemente sulla scena con l’ipotesi della fornitura di armi a Kiev, dopo un lungo periodo di inattività riguardo al conflitto ucraino, ma le loro dichiarazioni rimangono fino a questo momento ambigue. La Nato si prepara a una ripresa della guerra fredda, ma lo fa a un ritmo molto più lento dell’evolversi del conflitto ucraino. Le trattative concrete sembrano limitarsi principalmente all’Ue, da una parte, e alla Russia, dall’altra. La posizione di quest’ultima sembra in questo momento la meno chiara, ma le reiterate dichiarazioni ufficiali secondo cui Mosca vuole un Donbass all’interno dell’Ucraina sembrano un passo nei confronti di un compromesso, di cui la Russia potrebbe avere un grande bisogno anche per la forte crisi economica in cui si trova. Bruxelles (ma sotto le righe in realtà anche Washington e la Nato) ha dimostrato nelle sue dichiarazioni una disponibilità molto più grande di quella di Mosca a giungere un compromesso. Per l’Ue il momento è particolare e ne va non solo del suo prestigio, bensì sul lungo termine della sua possibilità di esistere come soggetto funzionante. Le trattative vanno infatti messe nel contesto della fondamentale crisi nei rapporti tra Bruxelles e Atene, i cui riflessi vanno ben al di là dei rapporti tra i due, e dei tentativi di uscire dalla crisi economica con un quantitative easing dalla dubbia efficacia. Oggi a Minsk è in gioco tutto questo e di sicuro se ne parlerà a porte chiuse, mentre ufficialmente oggetto delle trattative saranno solo aspetti come la linea di divisione tra Kiev e separatisti, il futuro status del Donbass e l’eventuale invio di una missione di pace.

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