CINA / Dalla parte degli oppressi. Intervista sul colonialismo e il capitalismo del terrore nello Xinjiang

intervista a Darren Byler, a cura di Ralf Ruckus, da nqch.org, febbraio 2021

La “guerra contro il terrorismo” messa in atto dalle autorità cinesi nella regione dello Xinjiang altro non è che una forma di colonialismo mirata a tenere sotto controllo una popolazione di etnia diversa da quella maggioritaria han, traendone il massimo profitto economico possibile. Al fine di perseguire questi obiettivi, Pechino ha messo a punto una macchina repressiva brutale e sotto alcuni aspetti ispirata alle tecniche applicate dagli Usa in Iraq e altrove.

[Lo studioso Darren Byler è autore di “Terror Capitalism. Uyghur Dispossession and Masculinity in a Chinese City”, che uscirà nel dicembre 2021 presso la Duke University Press. Ralf Ruckus è autore di “The Communist Road to Capitalism: How Unrest and Containment Have Pushed China’s (R)Evolution Since 1949”, la cui uscita è prevista per il luglio di quest’anno per la PM Press. Premettiamo all’intervista alcuni dati tratti da un recente articolo del Financial Times che aiutano a meglio inquadrare l’importanza economica dello Xinjiang. La regione produce l’80% del cotone della Cina e il 20% di quello consumato nel mondo ed è ricca di gas, carbone, petrolio e minerali. E’ uno dei centri di assemblaggio di importanti settori come quello automobilistico, elettronico e tecnologico. Lo Xinjiang costituisce inoltre un importante corridoio di trasporto, nonché di passaggio di gasdotti e oleodotti, verso l’Asia Centrale, il Medio Oriente e l’Europa. Nella regione sono presenti molte grandi aziende estere: ben 50 aziende americane che fanno parte della lista di Fortune 500 e 70 delle maggiori aziende Ue. Inoltre, secondo l’Australian Strategic Policy Institute, 83 aziende estere e cinesi utilizzano il lavoro di circa 80.000 lavoratori dello Xinjiang trasferiti dalla provincia per lavorare in condizioni precarie in 27 fabbriche sparse per la Cina]

Ralf Ruckus: Il regime del Partito Comunista Cinese (“PCC”) ha giustificato il sistema sempre più capillare di sorveglianza, così come le altre misure repressive nello Xinjiang, come un elemento indispensabile della “guerra popolare contro il terrore”. Come è giunto a ciò?

Darren Byler: In seguito alle massicce proteste di strada degli uiguri, alla violenza della polizia e ai tumulti verificatisi nel 2009 a Urumqi, la capitale della regione autonoma uigura dello Xinjiang, le autorità locali hanno organizzato delle campagne militarizzate allo scopo di “colpire duro” in tutta la regione. Ciò ha avuto come conseguenza la scomparsa di diverse migliaia di uiguri e un crescente risentimento per la brutalità della polizia e il controllo esercitato dallo stato. Allo stesso tempo, nello Xinjiang meridionale sono aumentate le confische di terre, poiché lo stato ha incentivato l’insediamento di persone di etnia han [ampiamente maggioritaria in Cina – N.d.T.] nelle aree a maggioranza uigura – un’altra grande fonte di tensione.

Queste crescenti forme di controllo, insieme al furto legalizzato della terra, sono state le cause principali delle crescenti proteste e violenze uigure dirette contro gli apparati statali. Molti di questi episodi sono stati descritti dai media statali come “terrorismo”. Tuttavia è importante notare che in numerosi casi la quota maggiore delle persone uccise o ferite in questi eventi era costituita dagli stessi uiguri che avevano commesso gli atti. Di norma erano disarmati o avevano solo armi rudimentali e sono stati uccisi o feriti da armi automatiche della polizia. Nel 2014 e nel 2015, mentre conducevo ricerche sul campo nella regione ho intervistato diversi civili uiguri e han che erano stati testimoni diretti di tali eventi. Uno di loro era stato colpito da un proiettile alla gamba.

Parallelamente all’aumento della violenza della polizia e delle proteste degli uiguri, a partire dal 2011, con l’arrivo dei servizi internet basati sugli smartphone, le pratiche religiose uigure hanno cominciato ad assumere nuove forme. Molti uiguri hanno cominciato a usare l’app WeChat per discutere la loro posizione nell’ambito del mondo musulmano. La sfera privata-pubblica del discorso digitale degli uiguri, meno regolamentata, ha portato a una maggiore diffusione dell’istruzione religiosa tra gli stessi. Molti sono diventati più devoti nella loro pratica musulmana, un fenomeno che la mia ricerca ha dimostrato essere, in primo luogo, un modo per proteggersi dalla crescente pressione esercitata dall’insediamento Han nelle aree a maggioranza uigura e, in secondo luogo, un modo per sfuggire al controllo statale sui movimenti, sull’istruzione e sullo sviluppo economico. Le persone che ho intervistato hanno detto di essere diventate religiose “perché dava loro speranza”.

Alla fine del 2013 e all’inizio del 2014 c’è stato anche un aumento degli attacchi violenti compiuti da civili uiguri e che prendevano direttamente di mira civili han. Ne sono un esempio diversi episodi verificatisi in centri urbani come Pechino, Kunming e Urumqi. Questi attacchi coordinati e pianificati, che hanno visto l’utilizzo di coltelli, veicoli e ordigni esplosivi, sono diversi da molti altri attacchi definiti terroristici, che sono spesso di carattere spontaneo e prendono di mira i rappresentanti dello Stato. La “guerra popolare contro il terrore” è stata dichiarata in risposta a questi attacchi.

Tuttavia, la campagna per “colpire duro” messa in atto nell’ambito della “guerra popolare contro il terrore” è andata ben oltre il prendere di mira i criminali che hanno effettuato gli attacchi e coloro che li hanno sostenuti, portando a una criminalizzazione della pratica religiosa e della appartenenza etnica uigura. Inizialmente erano solo i leader religiosi ad essere mandati nei campi, ma dal 2017 lo stato ha iniziato a colpire l’intera popolazione adulta musulmana. Non si trattava semplicemente di un programma di prevenzione del terrorismo, bensì di un programma mirato a impedire agli uiguri di essere musulmani e, in una certa misura, di essere uiguri.

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RR: Le misure di controinsurrezione, repressione e sorveglianza messe in atto dal regime del PCC nello Xinjiang assomigliano in una certa misura a quelle utilizzate dall’esercito statunitense in Iraq e in Afghanistan. Quali sono i reciproci collegamenti e quali invece le differenze?

DB: La teoria della controinsurrezione o COIN si basa su tre elementi: intelligence a pieno spettro tra le popolazioni insorgenti, neutrali e contro-insorgenti, spezzamento della rete sociale di quelli identificati come insorgenti, e “conquista dei cuori e delle menti” delle rimanenti popolazioni. Alla fine degli anni 2000, poco dopo l’adozione in Iraq e Afghanistan della Dottrina Petraeus di COIN, un manuale dell’esercito scritto dal generale americano David Petraeus che descrive questi tre elementi, i teorici militari e della polizia cinesi hanno iniziato a discutere i modi in cui poteva essere applicata nel loro paese.

Hanno inoltre iniziato a studiare come i cosiddetti programmi di polizia preventiva adottati in Europa e Nord America – spesso chiamati Countering Violent Extremism o CVE – potevano essere applicati alle popolazioni musulmane in Cina. Esponenti della corrente di studi critici sul terrorismo come Arun Kundnani hanno evidenziato come tali programmi si basino sull’errata convinzione che la devozione islamica debba necessariamente condurre all’azione violenta. Questi programmi possono essere utilizzati anche ai fini di una istituzionalizzazione dell’islamofobia nell’ ambito delle istituzioni sociali.

Quando nel 2014 è iniziata la cosiddetta “guerra popolare contro il terrore”, le accademie di polizia di tutta la Cina, e in particolare dello Xinjiang, hanno cominciato a integrare entrambi questi modelli e ad applicarli alla strategia antiterrorismo cinese. In Cina nei fatti le politiche antiterroristiche vengono condotte solo contro i musulmani di origini turche e soprattutto contro gli uiguri, quindi in sostanza questo nuovo corpus teorico e applicativo è stato utilizzato specificamente per prendere di mira gli uiguri. L’Ufficio di Pubblica Sicurezza dello Xinjiang ha fatto propri questi modelli standardizzando e rendendo sistematiche le operazioni di intelligence e le proprie analisi della popolazione.

Anche l’uso dei campi si ispira direttamente al modo in cui l’esercito americano in Iraq ha inventato la categoria dei cosiddetti detenuti “proni alla criminalità”. Ciò che ha reso unico il sistema dei campi nello Xinjiang, però, è stato il modo in cui lo stesso ha posto l’accento sulla “correzione del pensiero”, vale a dire sulla trasformazione dei detenuti stessi. Da questo punto di vista si è attinto all’eredità maoista dei campi di rieducazione. Nel caso degli Stati Uniti in Iraq, la strategia basata sul “conquistare i cuori e le menti” della nazione che l’esercito americano aveva appena distrutto (uccidendo un enorme numero di persone) e la cui terra aveva occupato, non si poneva come obiettivo quello di instillare un programma ideologico attraverso la coercizione. Veniva invece presentata più che altro come un dono offerto in modo gratuito e somministrato dai leader alleati degli Usa alla popolazione musulmana.

Nel contesto dello Xinjiang, il programma ha un carattere punitivo e fortemente coercitivo e viene messo in atto da autorità statali non musulmane insieme ai rispettivi rappresentanti. I teorici cinesi che si occupano delle attività di polizia definiscono questi aspetti del programma di polizia preventiva come le sue “caratteristiche cinesi”. Sebbene la vecchia logica della rivoluzione di massa dell’era Mao svolga un certo ruolo a livello organizzativo, è importante ricordare che lo Xinjiang è una colonia interna della Cina. La “correzione del pensiero” attuata dai colonizzatori han sui musulmani colonizzati trasforma sia la lotta rivoluzionaria sia la “conquista dei cuori e delle menti” promossa dalla COIN in una lotta coloniale. In questo senso, vi è una certa differenza tra la relazione coloniale in atto tra la Cina e lo Xinjiang e la relazione imperiale degli Stati Uniti con l’Iraq.

RR: Quali sono le misure più importanti che il PCC ha adottato nello Xinjiang in termini di sorveglianza, controllo e sfruttamento?

DB: È importante capire che la sorveglianza promossa e implementata dagli Uffici di Pubblica Sicurezza dello Xinjiang, attraverso sistemi realizzati e mantenuti da aziende tecnologiche private, va oltre il controllo della manodopera musulmana e della migrazione – che sembrano essere gli obiettivi primari del sistema – e si estende fino all’assunzione del controllo di istituzioni e ambiti sociali uiguri e kazaki come le moschee, le scuole, i luoghi sacri, la vita rituale e la vita familiare. È questo che rende il sistema un vero e proprio sitema coloniale, più che la semplice accumulazione capitalista attraverso l’espropriazione.

L’insediamento di coloni implica la presa di controllo delle istituzioni sociali autoctone al fine di realizzare una piena occupazione della società locale e di stabilire un rapporto di dominazione sulla vita delle popolazioni indigene. I sistemi di sorveglianza accelerano questi processi ed estendono il potere delle autorità statali e dei loro agenti, facendo sì che vengano messe in atto politiche di criminalizzazione della pratica religiosa, nonché di messa al bando della lingua uigura e di quella kazaka nelle scuole. La limitazione degli spostamenti comporta anche una separazione familiare su larga scala attraverso strumenti come i collegi residenziali per bambini e ragazzini e l’assegnazione forzata al lavoro in fabbriche scelte dalle autorità.

Naturalmente nel sistema di sorveglianza vi sono ancora numerose lacune che richiedono il ricorso a una sorveglianza umana. Per questo lo stato ha mobilitato oltre un milione di dipendenti pubblici incaricati di “adottare” le famiglie musulmane e di monitorare le loro attività. Questi dipendenti “mandati in missione” da aziende e istituzioni urbane mettono in atto un programma che ricorda sotto certi aspetti le vecchie campagne dell’era di Mao con le quali gli abitanti delle città venivano mandati nelle campagne per imparare dalle masse o venivano mobilitati nell’ambito di altre campagne per svolgere il ruolo di educatori e di prestatori di assistenza sanitaria. In questo contesto, le masse rurali uigure e kazake sono costrette a imparare dai cosiddetti “parenti” che le adottano.

La campagna ha anche una componente etno-razziale e di genere. Quasi tutti i “parenti” urbani sono han non musulmani e molti sono maschi. Entrambi gli elementi comportano una stigmatizzazione per le famiglie che li ricevono, in particolare per le famiglie che hanno un membro maschio della famiglia detenuto. In alcuni casi vi sono state anche palesi violenze sessuali da parte dei visitatori maschi nei confronti delle donne ospiti.

I comitati di sorveglianza di quartiere e i circa 90.000 assistenti di polizia controllano anche che i matrimoni e i funerali rispettino i criteri convenzionali non religiosi, che il divieto di circoncisione e di digiuno durante il Ramadan sia osservato, e che vengano inoltre rispettati i divieti di coprirsi il viso e di portare la barba.

Anche in questo caso si tratta di qualcosa di più di una semplice campagna ideologica. Intaccando profondamente la riproduzione della vita sociale musulmana, il sistema di polizia produce a proprio esclusivo vantaggio una vasta gamma di dati, di posti di lavoro e di investimenti, e, in definitiva, una forza lavoro produttiva spogliata delle sue ultime forme di autonomia residue. Sono gli uiguri e i kazaki, e in misura minore i poliziotti e i dipendenti pubblici di basso rango, a pagare il prezzo dello sviluppo del sistema.

RR: In che modo in particolare le donne e gli uomini vengono rispettivamente presi di mira o colpiti?

DB: Tra i due terzi e i tre quarti degli uiguri e dei kazaki che sono stati arrestati sono uomini tra i 18 e i 55 anni. Questo significa che una percentuale significativa della popolazione maschile adulta – quella che più di ogni altra contribuisce all’agricoltura e che guadagna un salario – è scomparsa. Lo stato ha fornito alcuni limitati sussidi ai rimanenti membri della famiglia – per lo più sotto forma di beni di prima necessità come riso e olio – e a volte un piccolo stipendio. Ma in generale queste famiglie sembrano essere state ulteriormente impoverite dalle detenzioni. Ciò ha prodotto a sua volta una maggiore dipendenza dallo stato. Una risposta a questa maggiore dipendenza è stato il programma di collocamento forzato al lavoro.

Alcuni rapporti indicano però che un numero significativo di donne partner di detenuti ha divorziato dai propri mariti per sfuggire alla stigmatizzazione e trovare un nuovo partner matrimoniale. Sembra che in alcuni casi, queste donne si siano risposate con “parenti” han inviati a monitorare le comunità. In altri casi sono state le famiglie a organizzare per le figlie un matrimonio con uomini han.

Dalle mie ricerche e da quelle di altri non risulta chiaro quale sia il numero di questi matrimoni. Tuttavia, vi sono rapporti di svariate comunità sui pagamenti effettuati alle coppie che si sposano in questo modo. Non è nemmeno chiaro quanto la coercizione al matrimonio sia diretta. Resta comunque innegabile che l’atmosfera politica e la pressione delle autorità locali svolgano un ruolo diretto in tali matrimoni.

Un altro elemento del sistema è l’applicazione estremamente rigorosa, in tutta la regione, delle leggi sulla pianificazione familiare. I cittadini vengono incentivati con ricompense a fornire informazioni sulle violazioni delle leggi sulla pianificazione familiare e molti musulmani che in passato hanno violato tali leggi sono stati inviati nei campi di concentramento e in prigione. Nei documenti governativi vi sono anche chiare prove di un aumento dei finanziamenti destnati ad attività sistematiche di effettuazione di esami ginecologici, inserimento di dispositivi intrauterini e sterilizzazione chirurgica.

Poiché questi nuovi programmi si rivolgono in particolare alle donne uigure e kazake, mentre parallelamente le stesse misure hanno registrato una diminuzione tra le donne han, appare chiaro che ci troviamo di fronte a un tipo di programma eugenetico simile alle iniziative di salute pubblica che colpivano le donne nere e i nativi americani negli Stati Uniti fino agli anni ’60. La drammatica diminuzione delle nuove nascite tra i musulmani nello Xinjiang – secondo quanto riportato nelle statistiche statali cinesi – è almeno in parte un riflesso di questo sistema. La separazione endemica delle famiglie attraverso il sistema dei campi e delle fabbriche svolge forse un ruolo ancora maggiore nella contrazione della riproduzione sociale uigura e kazaka.

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Colonialismo e sfruttamento

RR: Lo Xinjiang è un importante produttore di cotone e di altre colture agricole, nonché di petrolio e minerali. Che ruolo svolge tutto ciò nelle politiche che il PCC attua nello Xinjiang?

DB: È importante capire che le autorità centrali cinesi, in quanto autorità di uno stato in via di sviluppo, pongono una forte enfasi sugli investimenti strategici. Perciò sono più interessate al rendimento a lungo termine degli investimenti e alla sicurezza dell’economia nazionale che ai profitti immediati. Una delle loro priorità è disporre delle fonti interne di materie prime necessarie per una florida economia industriale. Il petrolio, il gas naturale, il carbone e le risorse minerarie dello Xinjiang sono un aspetto chiave dell’indipendenza energetica della Cina. Allo stesso modo, il cotone e i pomodori coltivati nello Xinjiang – entrambi intorno al 20-25% della produzione mondiale – sono materie prime di importanza chiave per la produzione orientata all’esportazione.

Dagli anni ’90, quando la Cina è diventata la “fabbrica del mondo”, questi settori merceologici sono diventati i pilastri dell’economia dello Xinjiang. Sono stati ciò che ha attirato i coloni han nella regione, prima per costruire le infrastrutture per l’estrazione delle risorse e poi per dare sostegno al settore industriale e a quello dei servizi. Negli ultimi tre decenni lo Xinjiang è diventato una classica colonia periferica che serve i bisogni delle metropoli di Shanghai e Shenzhen. Le principali fonti di attrito emerse nel processo di completo sfruttamento della ricchezza economica della regione sono state la geografia della regione e le rivendicazioni della sua popolazione autoctona.

RR: Lo Xinjiang è una “frontiera” per la Belt-and-Road Initiative (BRI) e svolge una funzione di hub della rete dei trasporti e di cantiere per nuove infrastrutture. Qual è l’importanza dello Xinjiang nell’ ambito della strategia di sviluppo che il PCC sta attuando nella Cina occidentale e nel contesto della BRI? In che modo la repressione degli uiguri e di altri gruppi è legata al ruolo economico della regione?

DB: Lo Xinjiang è, in effetti, un importante hub per le strategie di espansione economica e politica della Cina nell’ Asia Meridionale e Centrale. Costituisce la porta di accesso a importanti progetti infrastrutturali in Pakistan e a potenziali futuri progetti in Afghanistan. Probabilmente è ancora più importante strategicamente come fonte di petrolio e gas naturale (possiede circa il 20% delle riserve accertate della Cina), ma è anche un punto di transito di gasdotti che trasportano il gas naturale e il petrolio dal Caspio e dal Kazakistan verso est.

Nei primi anni 2010, sembrava che lo Xinjiang fosse destinato a diventare in breve tempo il centro commerciale dell’Asia Centrale. Lo stato ha creato diverse zone economiche speciali nelle città di confine, varando allo stesso tempo nuove politiche per rendere inermi gli uiguri. Poiché queste nuove zone escludevano in larga misura la manodopera e gli investimenti uiguri, ed erano associate a nuove forme di controllo, di fatto hanno avuto conseguenze fortemente negative per gli uiguri.

La nuova strategia sembra aver incentivato le imprese di proprietà han a ricorrere al lavoro forzato degli uiguri. Le aziende riescono a sottomettere gli uiguri grazie alla collaborazione delle forze dell’ordine, agli accordi con i governi locali, alle infrastrutture di sorveglianza e alla minaccia dei campi. Puntano a trasformare con tali metodi lo Xinjiang in un centro produttivo dell’Asia Centrale e ad assimilare forzatamente gli uiguri nell’economia cinese.

RR: Il regime del PCC ha descritto i centri di detenzione per gli uiguri e altri gruppi etnici come “scuole professionali”, suggerendo così che le sue misure siano una forma di lotta alla povertà e di promozione dello sviluppo. È plausibile? E come si rapporta tutto ciò con le politiche precedentemente applicate nello Xinjiang per “sviluppare” l’intera regione?

DB: È chiaro che il discorso dello sviluppo svolge un ruolo centrale nelle politiche statali riguardanti la regione. Non a caso è questo il modo in cui molti cittadini cinesi interpretano gli obiettivi del progetto. Nel discorso diffuso tra la popolazione han dello Xinjiang e di tutto il paese, lo Xinjiang è ritratto come “arretrato” e gli uiguri in particolare sono visti come “incivili” a causa della loro insufficiente istruzione in lingua cinese e del loro attaccamento all’Islam. Lo sviluppo viene visto come qualcosa che deve essere imposto loro (piuttosto che generato da loro).

Vi è chiaramente una grande quantità di “creazione di posti di lavoro” in corso nello Xinjiang nell’ ambito di questa campagna. Il concetto sembra essere quello secondo cui gli uiguri, se vengono costretti a imparare il cinese e gli viene inculcata un’autodisciplina come lavoratori industriali, alla fine diventeranno lavoratori produttivi e forse si renderanno conto di quanto sia vantaggioso far parte della società cinese dominante.

Ciò che non viene detto e non viene preso in considerazione in questo schema è il ruolo che hanno la sorveglianza e la violenza coloniale o epistemica. Come la studiosa Jennifer Pan ha evidenziato in un recente libro intitolato Welfare for Autocrats. How Socials Assistance in China Cares for its Rulers [Oxford University Press, 2020], i programmi cinesi di “alleviamento della povertà” sono stati utilizzati per la gestione e il controllo di settori problematici della popolazione che vanno dalle persone che si mobilitano per fare petizioni alle autorità, fino ai tossicodipendenti o alle minoranze religiose.

Oltre a offrire occupazione, tali sistemi favoriscono anche forme di sorveglianza, di sfruttamento del lavoro e di dipendenza dai programmi statali. Lo Xinjiang è un caso limite per il modo in cui i programmi di sviluppo economico basati sull'”alleviamento della povertà” mascherano in realtà forme perniciose di ipersfruttamento, ad esempio attraverso la delocalizzazione della produzione in luoghi dove il lavoro è deprezzato.

RR: L’attuale regime del PCC ricorre a una retorica modernizzatrice, che definisce socialista, mirata allo “sviluppo” delle aree abitate da popolazioni autoctone. Vedi dei paralleli con i discorsi dei missionari cristiani o quelli del capitalismo occidentale riguardo allo sviluppo?

DB: Sarei cauto nel definire “socialisti” i programmi messi in atto nello Xinjiang. Poiché i diritti dei lavoratori sono fortemente ridotti dalla relazione coloniale e i lavoratori stessi vengono sottoposti in tale contesto a una logica razziale in virtù delle politiche etniche adottate, penso che sia forse più corretto definirli come programmi di un capitalismo di stato o di un capitalismo coloniale.

Hanno molto in comune con i programmi capitalistici di presa di possesso delle terre con i quali i coloni bianchi furono inviati in luoghi come l’Oklahoma, la California e l’Oregon per rivendicare le terre dei nativi come proprie. Le successive spedizioni di missionari incaricati di pacificare i “selvaggi” che erano sconvolti dall’espropriazione e dall’occupazione delle loro terre, si proponevano di “Uccidere l’indiano, salvare l’uomo” [Richard Henry Pratt].

Vi è una logica analoga nei documenti statali che descrivono i programmi di riduzione della povertà e di rieducazione adottati per lo Xinjiang. Tali documenti mirano esplicitamente a inculcare negli uiguri una “qualità” (“suzhi” in cinese) spirituale e culturale nonché a salvarli dalla “malattia” dell'”Islam estremista” – termine che usano per indicare normali pratiche islamiche come la frequentazione delle moschee, la preghiera, lo studio del Corano e il digiuno durante il Ramadan. Il lavoro in fabbrica viene promosso in quanto non religioso e moderno, mentre il lavoro agricolo e le pratiche culturali uigure vengono svalutati come non produttivi o ” superflui”. Le feste e i rituali della vita quotidiana han, l’etnia maggioritaria, vengono presentati ai musulmani come “normali”, mentre molte pratiche tradizionali uigure vengono descritte nei documenti statali come “anormali” o come segni di estremismo.

RR: Qual è il ruolo svolto dall’ideologia della supremazia han, dai riferimenti alla superiorità della storia culturale cinese, o dalle attività che puntano alla sinicizzazione delle minoranze etniche? Come è cambiata la politica del PCC nei confronti delle “minoranze”?

DB: Nel corso degli anni 2010 il governo centrale cinese ha trasformato la propria politica etnica da una politica che riconosce nazionalità distinte a una che pone l’accento sul primato dell’identità nazionale cinese. Ciò ha avuto come conseguenza che gruppi come gli uiguri e i kazaki, così come i mongoli e i tibetani, che hanno ricche tradizioni linguistiche e letterarie autoctone, sono stati costretti a passare da sistemi di istruzione nelle proprie lingue a sistemi basati sulla lingua cinese.

Poiché le terre originarie di questi popoli coprono vaste aree del territorio della Cina, e sono diventate colonie interne del moderno stato nazionale cinese solo perché ereditate dal vecchio impero, non ci troviamo qui di fronte a una politica di assimilazione che prende di mira gli immigrati, come nel caso dei paesi euro-americani. Quello di fronte al quale ci troviamo nello Xinjiang è piuttosto un programma per eliminare e sostituire le lingue autoctone delle minoranze indigene, qualcosa di simile ai piani di genocidio adottati nel Nord America nei confronti dei nativi americani.

Non è chiaro perché lo stato cinese si sia imbarcato in questa campagna di colonizzazione sempre più spinta di queste minoranze. Un fattore importante è quello delle crescenti pressioni economiche interne che la Cina sta vivendo. Un altro è quello della sua crescente potenza sulla scena globale, che implica una minore paura dei leader cinesi di subire ritorsioni internazionali. Un terzo elemento importante, che la studiosa britannica Nitasha Kaul ha identificato in un recente articolo del Made in China Journal, è la storia passata della Cina come vittima della colonizzazione euro-americana e giapponese. Questa “ferita morale” ha generato un impulso a colonizzare altri per dare una dimostrazione della forza della nazione cinese.

Capitalismo del terrore

RR: Quali sono le caratteristiche del “capitalismo del terrore”? A quali forme di “terrore” si riferisce tale termine, e in che modo tali forme sono riconducibili al particolare genere di capitalismo esistente nello Xinjiang?

DB: Il termine “terrore” descrive in questo contesto concettuale il modo in cui gli uiguri e altri cittadini musulmani dello Xinjiang sono stati considerati come un “altro” irrazionale e come un’ intrinseca minaccia per la maggioranza “civilizzata”. Definirli “terroristi” – un modo socialmente accettabile per riferirsi a “selvaggi” o “barbari” – crea i presupposti per uno stato di eccezione al normale stato di diritto. Una volta che qualcuno viene definito terrorista o potenziale terrorista, le normali protezioni civili non valgono più. L’elemento di minaccia insito nel termine consente inoltre allo Stato di giustificare la messa sul piede di guerra dell’intera nazione e dei cittadini della popolazione maggioritaria. Questo stato di emergenza consente di mobilitare l’industria privata e i cittadini come agenti dello stato.

Quello che ho descritto fin qui è un particolare tipo contemporaneo di complesso industriale militare o di sicurezza. La mia argomentazione va un po’ oltre per esaminare quale tipo di capitale viene effettivamente prodotto da questo complesso e come tale capitale si inserisce nell’economia globale.

Il primo tipo di capitale che viene prodotto, in parallelo alla proprietà intellettuale generata dai nuovi sistemi infrastrutturali di sorveglianza e di polizia, sono i dati. Lo spazio di guerra dello Xinjiang ha creato un ambiente ad alta intensità di dati che permette ad alcune delle più grandi aziende tecnologiche private e statali della Cina di sviluppare nuovi strumenti di criminalistica digitale, di riconoscimento di immagini e volti, e di riconoscimento vocale. Ciò è stato facilitato da programmi di raccolta di dati che hanno fornito alle aziende un set di dati di base senza precedenti in termini di dimensioni e autenticità. I dati raccolti vengono sfruttati anche per usi secondari di tipo commerciale.

La seconda forma di capitale è costituita dal lavoro umano non libero facilitato dal sistema di onnisorveglianza digitale. Dal 2018 l’ente statale per lo sviluppo ha cominciato a descrivere i campi e il sistema di rieducazione come un “vettore dell’economia” della stessa rilevanza di risorse già esistenti come il petrolio, il gas naturale, il cotone e i pomodori. Oggi i documenti statali lasciano intendere che la “manodopera in eccesso” uigura e kazaka è diventata una risorsa aggiuntiva per l’economia dello Xinjiang, perché ha incentivato una grande quantità di aziende private della Cina orientale a trasferire alcuni segmenti della loro produzione nella regione. Il sistema di omnisorveglianza digitale – tracciatura degli smartphone, posti di blocco, scansioni facciali e così via – e la paura di essere sottoposti a detenzione arbitraria – una forma di terrore di stato – tengono strettamente sotto controllo gli uiguri e i kazaki, creando condizioni endemiche di assenza di libertà.

In questo contesto, i contratti di lavoro liberamente scelti sono solo un sogno per la maggior parte degli uiguri e dei kazaki. Il posto di lavoro viene invece assegnato. Non vi sono nemmeno spazi per negoziare i salari o protestare contro le trattenute salariali, che sono chiaramente diffuse in tutto il sistema. In molti casi, quindi, le persone sono “libere” di scegliere di lavorare in lavori forzatamente assegnati, a basso salario, lontano dalle loro famiglie, oppure sono “libere” di essere internate. Questa falsa libertà – una condizione che va oltre la semplice dipendenza dal “libero” mercato – è ciò che intendo quando uso il termine “lavoro non libero”. È importante notare che molte delle merci prodotte nell’ ambito di questo sistema vengono prodotte direttamente o indirettamente per l’esportazione nei paesi del Nord globale. Pertanto, il lavoro non libero uiguro è una frontiera del capitalismo globale.

Quindi, per riassumere, il capitalismo del terrore ricorre alla retorica sul “terrorismo” per giustificare l’investimento di capitale statale e privato nelle industrie ad alta intensità di dati e di lavoro. Come nei vari casi di capitalismo razzista in altri luoghi, la favola della minaccia costituita dai corpi e dalla socialità degli uiguri e dei kazaki consente di fare sì che la loro terra, i loro dati e il loro lavoro vengano espropriati legalmente, o rubati, creando così una nuova frontiera del capitalismo globale.

Nel mio libro Terror Capitalism. Uyghur Dispossession and Masculinity in a Chinese City [Duke University Press, dicembre 2021] esploro il modo in cui i progetti coloniali svolgono il ruolo di frontiere dell’espansione capitalistica, e affermo che colonialismo e capitalismo sono co-costitutivi. Il lavoro che attualmente sto svolgendo si confronta con il lavoro di studiosi che lavorano nel Nord America per esaminare il modo in cui la categoria del “terrorista” e le popolazioni private di status legale grazie al suo uso producono nuove frontiere del capitalismo in altri luoghi, come il Sud-Est asiatico e gli Stati Uniti.

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Critiche occidentali, sanzioni e silenzio

RR: I media e i politici occidentali inquadrano la repressione degli uiguri nello Xinjiang come una questione di diritti umani. Perché dovrebbero essere legittimati a farlo, visti i precedenti dei paesi occidentali in materia di diritti umani?

DB: Mentre è importante che i diritti civili e umani di tutte le persone siano protetti, molti paesi, come gli Stati Uniti, hanno sfruttato questa cornice legale e retorica come strumento di competizione geopolitica, ignorando allo stesso tempo le proprie violazioni di tali diritti. Per essere presi sul serio come sostenitori dei diritti umani, o più specificamente dell’antirazzismo e della decolonizzazione, gli Stati Uniti e altri paesi devono compiere passi concreti per promuovere tali processi nei rispettivi spazi nazionali. Gli Stati Uniti, in particolare, devono assumersi tutta la responsabilità per la guerra globale contro il terrorismo, che ha causato decine di milioni di sfollati e ha fatto da modello discorsivo e operativo per la campagna cinese nello Xinjiang.

Inoltre i diritti umani, sebbene costituiscano un importante quadro giuridico che può fornire protezioni istituzionali per le popolazioni emarginate, dovrebbero essere considerati principalmente come una linea minima di protezione. Quando invece diventano l’unico criterio con il quale si valuta la violenza coloniale, si perdono di vista i fattori economici e politici alla base della violenza strutturale. Hanno anche l’effetto di classificare le nazioni occidentali come superiori alle nazioni del Sud globale, che si ritiene essere il regno delle violazioni dei diritti umani. Così facendo si elude il fatto che i successi economici delle nazioni occidentali dipendono dallo sfruttamento dei mercati del lavoro e delle risorse delle nazioni meno ricche.

RR: I media e i politici occidentali usano anche i termini genocidio, genocidio culturale o etnocidio. Si tratta di termini appropriati?

DB: Il termine genocidio pone problemi simili a quelli che pone un’interpretazione del sistema dello Xinjiang che si limiti ai soli diritti umani. Sebbene la definizione legale del termine genocidio sia molto più ampia di quella di una strage di massa attribuibile a un unico evento, è principalmente in quest’ultimo modo che il termine genocidio viene comunemente inteso.

E anche nella loro definizione più ampia, le interpretazioni giuridiche del genocidio mettono in secondo piano gli aspetti strutturali di un sistema genocida. Vale a dire che gli studi sul genocidio vengono in gran parte tenuti separati dagli studi sulla creazione di frontiere capitalistiche e sul colonialismo. Si concentrano invece molto di più sull’odio etnico-razziale, che a mio parere sono secondari rispetto all’aspetto più fondamentale del sistema di espropriazione economica, di dominazione coloniale e di occupazione.

I progetti coloniali spesso comprendono una violenza genocida, ma vanno molto al di là di ciò. È per queste ragioni che preferisco evitare le discussioni sulla terminologia e descrivere invece i sistemi che vengono messi a punto e i loro effetti. La domanda se ciò che sta accadendo costituisce o meno un genocidio, o più in generale un crimine contro l’umanità (la mia interpretazione è che soddisfa i criteri legali di entrambi), è un po’ fuori tema dal mio punto di vista.

RR: Possiamo attenderci un approccio diverso dell’amministrazione Biden verso la Cina, in particolare per quanto riguarda lo Xinjiang, rispetto a quello della precedente amministrazione Trump?

DB: Spero che gli Stati Uniti si adeoperino al fine di invertire le politiche islamofobiche della precedente amministrazione e comincino a costruire alleanze più solide con i paesi a maggioranza musulmana, riconoscendo allo stesso tempo le proprie responsabilità per i costi che la guerra globale contro il terrorismo ha comportato. È necessario muoversi in tale direzione in buona fede e analizzare in modo sistematico e trasparente ciò che sta accadendo sul terreno nello Xinjiang. Quest’ultima attività aiuterà ad agire in modo multilaterale al fine di dare sostegno agli uiguri della diaspora, a individuare le catene di fornitura nell’ambito delle quali si ricorre al lavoro forzato e a valutare il grado di coinvolgimento degli Stati Uniti nei sistemi di sorveglianza etnico-razziali.

RR: Il governo degli Stati Uniti ha imposto sanzioni nei confronti di soggetti economici e politici per le repressioni nello Xinjiang? Qual è il loro impatto?

DB: Gli Stati Uniti hanno applicato sanzioni mirate a leader e istituzioni statali che svolgono un ruolo di importanza chiave nel sistema dello Xinjiang, e hanno inoltre vietato alle aziende statunitensi di vendere prodotti e servizi a un certo numero di aziende tecnologiche cinesi coinvolte nelle attività di sorveglianza. Più recentemente hanno vietato l’importazione di prodotti di cotone dallo Xinjiang.

Queste misure hanno avuto un effetto significativo sulle aziende private e statali complici del sistema repressivo nello Xinjiang. Lo stato o, meglio ancora, una commissione multilaterale indipendente, dovrebbe fornire maggiori ragguagli sul perché queste aziende sono complici. Questo avrebbe l’effetto, in primo luogo, di valutare se dette misure sono motivate principalmente da interessi geopolitici o da un’attenzione per la giustizia sociale, e, in secondo luogo, di fare in modo che altri paesi si uniscano a queste campagne.

Le sanzioni sono efficaci nell’imporre un costo morale ed economico che colpisce i sistemi di oppressione nello Xinjiang. Sono probabilmente meno efficaci nel fornire una soluzione adeguata al problema. Dovrebbero essere considerate principalmente come una misura per evitare una complicità con il sistema. Come attivista di sinistra, il mio impegno principale non è quello di mettere a punto le ennesime risposte incentrate sullo stato, bensì quello di creare iniziative collettive per la decolonizzazione e per la promozione dal basso dei diritti dei lavoratori che si impegnino attivamente nella solidarietà con gli uiguri.

RR: Svariati paesi a maggioranza musulmana, e anche non pochi altri paesi delle Nazioni Unite, hanno evitato di criticare il governo del PCC o lo hanno addirittura appoggiato in sede ONU. Qual è la loro motivazione?

DB: La Cina è la seconda economia del mondo in ordine di grandezza. È anche il maggiore partner economico estero di molti degli stati membri dell’ONU che si sono schierati con la Cina su questo tema. La Cina inoltre fa da contrappeso all’egemonia degli Stati Uniti. Per molti paesi opporsi alla Cina su questo tema comporta semplicemente costi economici e politici troppo alti.

Inoltre, molti di questi governi abusano delle minoranze etniche nei propri paesi e si oppongono in generale agli interventi delle Nazioni Unite in tale sfera. In alcuni casi, poi, i media cinesi sono stati efficaci nel distorcere la realtà di ciò che sta accadendo e nel dipingere le testimonianze sui campi come semplice disinformazione del governo degli Stati Uniti.

Eppure, nonostante l’inazione dei loro governi, in molte aree a maggioranza musulmana la gente comune sostiene con forza le richieste di solidarietà con gli uiguri. Per esempio, in Indonesia, Malesia e Bangladesh ci sono state grandi marce di solidarietà. Un sondaggio su larga scala condotto in Palestina indica che più dell’80% dei palestinesi si dice convinto dell’autenticità dei resoconti dei media e dei ricercatori sulla portata dei campi e sulla violenza in essi esercitata, esprimendo solidarietà agli uiguri.

Pressioni dal basso?

RR: Che ruolo hanno le organizzazioni della diaspora uigura nel promuovere il dibattito critico sulla Cina?

DB: Gli uiguri della diaspora sono dispersi in varie località del mondo. Sono un gruppo piuttosto piccolo, e fino a poco tempo fa la maggioranza di loro era troppo spaventata da quello che sarebbe potuto succedere ai propri familiari in Cina per parlare apertamente delle forme di discriminazione che avevano sperimentato. Inoltre molti uiguri della diaspora parlano fluentemente solo l’uiguro e il cinese e non hanno una conoscenza approfondita dei sistemi politici e culturali dei paesi che li ospitano. Ciò si traduce nel fatto che è difficile per loro avere molta influenza nei paesi in cui vivono.

Sfortunatamente, a causa dell’inazione della sinistra, che spesso è focalizzata su altre questioni, il più delle volte di natura interna, i soggetti che esercitano un’influenza nei paesi occidentali e che hanno ascoltato le voci degli uiguri provengono spesso da posizioni nazionaliste di destra. Ciò ha esposto la causa uigura a manipolazioni da parte di politici che avevano già assunto posizioni xenofobe e anticinesi. Alcuni uiguri della diaspora hanno cominciato a considerare un immaginario etno-stato del Turkestan orientale come la migliore soluzione al problema.

Tra gli uiguri che ho incontrato nello Xinjiang nel 2014 e 2015 questo punto di vista era meno prevalente, e gli stessi erano principalmente interessati a una maggiore autonomia all’interno della Cina, come previsto dalla costituzione cinese. Desideravano poter viaggiare, lavorare liberamente e garantire un futuro migliore alle proprie famiglie. Oggi sarebbe possibile immaginare un tale futuro solo in presenza di una drastica inversione delle politiche che la Cina attua nello Xinjiang.

RR: Quali possibilità e direzioni vedi per una strategia di sinistra che sia critica e solidale?

DB: È solo negli ultimi anni che una seconda generazione di studiosi, studenti e giovani professionisti uiguri ha iniziato ad adottare una prospettiva più sfumata sulla situazione che li riguarda. Questi giovani di sinistra sono interessati ala solidarietà con altri movimenti per la giustizia economica e l’autonomia, come quelli di Hong Kong e del Kashmir, e con lotte di più lunga data come il movimento di liberazione palestinese e il movimento anti-apartheid in Sudafrica.

Tutti gli attivisti di sinistra dovrebbero schierarsi a fianco di questo gruppo emergente di persone di sinistra dello Xinjiang e riconoscere che ciò che sta accadendo nella regione è una forma di colonizzazione connessa al capitalismo globale. La sinistra dovrebbe denunciare e contrastare ovunque il potere statale, i processi di dominazione etnica e il super-sfruttamento messo in atto dalle multinazionali.

E deve certamente opporsi alla colonizzazione dei popoli autoctoni – indipendentemente dal fatto che questa colonizzazione venga portata avanti dalle potenze europee o meno. Cornel West ha riassunto bene il concetto in un’intervista in cui parlava della Cina e di altre aree. Parafrasando, ha detto che per essere coerenti nella lotta per la decolonizzazione bisogna sapere improvvisare. Con questo intendeva dire, in primo luogo, che l’impegno per l’antirazzismo e la decolonizzazione implica lo schierarsi con gli oppressi ovunque essi siano. In secondo luogo, che questo schierarsi implica l’improvvisazione di una presa di posizione contro tutte le forme di imperialismo simultaneamente. Questo a sua volta può portare a un internazionalismo che ponga al suo centro le voci degli oppressi e le amplifichi.

RR: In che misura le critiche al governo del PCC hanno avuto un impatto? Ha corretto in qualche modo le proprie strategie?

DB: La mia sensazione è che lo stato cinese abbia risposto alla pressione internazionale riducendo alcune delle forme più palesi di sorveglianza e repressione nello Xinjiang. Ha anche rilasciato alcuni detenuti assegnandoli a forme meno restrittive di confinamento in seguito a pressioni dirette. Molti altri però sono stati trasferiti dai campi alle carceri e altri ancora a forme di lavoro forzato.

Penso quindi che sia inesatto dire che l’attenzione verso questo problema non abbia avuto alcun effetto, solo che questo effetto è ancora insufficiente. La risposta è stata per lo più quella di occultare in modo più efficace determinati aspetti del sistema e di cercare di creare delle contronarrative. Questo non significa escludere la possibilità di futuri e più profondi cambiamenti.

Come ha sottolineato un mio collega, Eli Friedman, spesso lo stato cinese cambia le proprie politiche in modo tardivo, distanziando temporalmente la risposta dello stato alle proteste al fine di preservare l’immagine di uno stato potente. Potrebbe essere troppo presto per dire come risponderà lo stato cinese, in particolare se la pressione sul tema dello Xinjiang persisterà. In generale, il danno reputazionale arrecato dal sistema creato nella regione non si è ancora fatto pienamente sentire in Cina. Per la Cina, in quanto potenza che aspira a farsi globale, è importante coltivare un’immagine di sé che le altre nazioni vogliono emulare. Sarà in ultimo su questo piano che l’intero corpo politico cinese sentirà quanto può essere pesante il costo dello Xinjiang.

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