CINA / Perché la sinistra non fa il suo mestiere?

di Andrea Ferrario

Un recente articolo riguardante l’economia e la situazione sociale in Cina scritto da un importante esponente della sinistra europea, il portoghese Francisco Louçã, finisce per essere di fatto un messaggio di promozione del regime di Xi grazie a dati errati e a un approccio politico inaccettabile. Lo schema che adotta, quello dell’ammirazione per i “miracoli” del capitalismo cinese e del silenzio invece sulla situazione tragica della classe lavoratrice e dei compagni locali, è tipico di ampi settori della sinistra, anche antistalinista. Per questo è a mio parere importante sottoporlo a una dettagliata critica, come faccio qui sotto.

L’articolo di Francisco Louçã che qui analizzo ha avuto ampia circolazione, essendo stato pubblicato prima nell’originale portoghese dal settimanale “Expresso” per esssere poi ripreso da “Esquerda” (sito del Blocco di Sinistra portoghese) e infine in fedele traduzione italiana dal sito “Movimento Operaio” di Antonio Moscato con il titolo “Cina | Successi economici e scosse sociali”. L’articolo purtroppo offre una visione fuorviante della Cina di oggi, a causa sia di alcuni macroscopici errori ed omissioni sul lato fattuale sia di un approccio politico reticente in relazione ad aspetti fondamentali. Dietro a una retorica all’apparenza bilanciata e critica, finisce a mio parere per essere un messaggio promozionale sull’operato del regime di Pechino. Vista la rilevanza dei temi preferisco formulare le mie critiche in modo netto, senza superflui peli sulla lingua. Per una coincidenza, i temi trattati nell’articolo di Louçã sono pressoché gli stessi che ho affrontato appena prima di Natale in un’analisi in tre parti (Parte 1, Parte 2, Parte 3) pubblicata sul sito Crisi Globale, alla quale rimando perché vi ho linkato minuziosamente le fonti di dati/fatti che riguardano direttamente quanto qui sotto discuto.

I pochi dati economici selezionati da Francisco Louçã nel suo articolo sulla Cina forniscono un’immagine travisata della realtà economica cinese. A cominciare da quello del tutto sbagliato di un “debito pubblico balzato al 285%”. Il debito statale cinese in realtà attualmente ammonta ad appena circa il 50% del Pil e se si aggiunge anche quella che è la stima del debito delle amministrazioni locali arriva al massimo al 75% (si vedano https://www.scmp.com/economy/china-economy/article/3084979/china-debt-how-big-it-who-owns-it-and-what-next e https://en.wikipedia.org/wiki/National_debt_of_China). La cifra enormemente più alta che invece cita l’autore sembra riferirsi a una cosa ben diversa, cioè il debito totale, composto da debito pubblico, debito delle aziende (alto come in nessuna altra delle maggiori economie) e debito dei nuclei familiari (mutui per la casa e credito al consumo), quest’ultimo da anni in rapidissima ascesa. L’articolo tra l’altro omette inspiegabilmente un altro fatto testimoniato da altri dati altrettanto fondamentali e noti (li si trova comodamente riassunti in questo articolo di Bloomberg: https://www.bloomberg.com/news/articles/2021-01-18/china-s-strong-growth-masks-unbalanced-recovery-as-incomes-lag?sref=6ZE6q2XR), e cioè che l’economia cinese in questo 2020 è stata trainata in realtà oltre che dagli investimenti, come riporta Louçã (investimenti principalmente in infrastrutture inutili, aggiungerei io), anche e in pari misura da fattori come la bolla della speculazione immobiliare e le esportazioni verso l’occidente di prodotti medici ed elettronici. Non sono tecnicismi – è che questi fondamentali dati omessi dall’autore dipingono una situazione reale ben diversa da quella falsa, basata su dati errati o non si capisce perché omessi, di uno stato “keynesiano” che punta sulla spesa pubblica, e parlano invece di uno stato liberista che crea una bolla speculativa gigantesca e va al traino del commercio estero. Tra l’altro, il debito totale è attualmente del 335%, notevolmente più alto del dato vecchio del 285% riportato erroneamente dall’autore come debito pubblico. Osservo inoltre che Louçã, nonostante affermi nella parte iniziale che sulle statistiche pubblicate dal regime di Pechino ci possono essere riserve (un inutile eufemismo, perché è ampiamente dimostrato che quelle politicamente più delicate sono spudoratamente manipolate), poi riporta come oro colato dati di natura dubbia che parlano di una crescita eccezionale.

China Workers

Mi pare poi inaccettabile, per un militante di sinistra, riportare acriticamente le stime della Banca Mondiale sul “miracolo” degli 800 milioni di cinesi usciti dalla povertà negli ultimi 40 anni, che vengono regolarmente citate da destra e capitalisti a sostegno dei fantomatici miracoli sociali generati dal capitalismo di mercato introdotto da Deng Xiaoping. Se si vanno a vedere i dettagli (https://en.wikipedia.org/wiki/Poverty_in_China), secondo la Banca Mondiale in Cina risulta uscito dalla povertà chi ha un reddito di 1,90 (uno virgola novanta!) dollari al giorno in base ai prezzi 2011, in pratica un livello ai limiti della morte per fame anche in Cina. Senza contare che prima delle riforme introdotte dal Partito Comunista negli anni ‘80 chi aveva un reddito così basso aveva almeno alloggio, sanità e istruzione gratuiti, mentre da decenni non è più così. Perché riportare acriticamente, facendoli in tal modo propri, questi travisamenti della propaganda capitalista?

I due capoversi sotto il titolo “Il mondo degli affari” oltre a tessere lodi acritiche per le (discutibili) capacità innovative della Cina, citano del tutto distrattamente un vago “autoritarismo sociale”, ma sembra che tale autoritarismo esista solo perché le aziende occidentali che investono nel paese lo vogliono, visto che si parla esclusivamente del loro ruolo. Nell’articolo infatti non si fa nemmeno un accenno ai capitalisti cinesi con i loro trilioni di dollari, buona parte dei quali membri del Partito “Comunista”, o allo stretto nesso tra vertici statali e capitale nazionale, il cui ruolo è ormai da decenni prevalente in Cina in termini sia economici che politici.

Tutto ciò si riallaccia all’ultimo striminzito paragrafo “sociale” conclusivo dell’articolo, che contiene altre informazioni errate e quindi fuorvianti. Non è affatto vero che i lavoratori della Pegatron abbiano avviato uno sciopero contro la delocalizzazione della loro fabbrica, come invece scrive Louçã. Una parte di essi (quelli con contratto a tempo determinato) ha tenuto solo un’unica azione di protesta di fronte alla fabbrica in orario non lavorativo, ottenendo qualche concessione secondaria e tornandosene a casa il giorno stesso (basta leggere con attenzione la fonte citata da Louçã stesso: https://clb.org.hk/content/temporary-workers-stage-mass-protests-electronics-factories-china-and-india). C’è un’enorme differenza di significato politico tra uno sciopero dei lavoratori di una fabbrica e una breve protesta subito rientrata di parte di essi di fronte ai cancelli, per quanto entrambi possano essere sacrosanti. E’ falso anche che in Cina ci siano stati “503 scioperi” di “questo tipo” negli ultimi sei mesi, anche se in questo caso l’autore può essere stato tratto in inganno dal fatto che la fonte da egli citata, cioè ancora una volta il China Labour Bulletin (si veda https://maps.clb.org.hk/?i18n_language=en_US&map=1&startDate=2020-07&endDate=2021-01&eventId=&keyword=&addressId=&parentAddressId=&address=&industry=&parentIndustry=&industryName=), intitoli impropriamente la sezione contenente i dati che riporta come “Mappa degli scioperi”. Ma a Louçã sarebbe bastato dedicare un solo attimo a una verifica di cosa c’era dietro il titolo per scoprirlo: sono pressoché tutti non scioperi, ma proteste di una manciata di lavoratori del settore edile (in alcuni casi addirittura di un singolo lavoratore) per ottenere gli stipendi non pagati. Anche in questo caso, c’è una differenza fattuale e di significato politico abissale tra 3-4 lavoratori che sostano su un marciapiede con un cartello in cui chiedono il pagamento degli stipendi arretrati e operai di un’intera fabbrica che si organizzano e avviano uno sciopero. E’ importante metterlo in evidenza, perché Louçã con le sue deformazioni dei fatti dà l’impressione che in Cina ci sia una dialettica sindacale vivace di fronte a quello che al massimo è solo un vago “autoritarismo” o una semplice compressione dei salari, per usare le sue parole. In realtà nella Cina di Xi Jinping, a partire dal 2015-2016, vi è stata una grande e violenta ondata di repressioni sia contro il movimento sindacale sia contro la giovane emergente sinistra radicale marxista che lo sosteneva, con vaste operazioni di polizia, incarcerazioni, torture e sparizioni di militanti sulla quale la sinistra italiana ha sistematicamente mantenuto il silenzio (io ho provato a riferirne in italiano, senza alcuna eco, a partire da questo mio articolo in particolare: https://crisiglobale.wordpress.com/2018/10/29/cina-lincubo-di-xi-jinping-lavoratori-femministe-e-studenti-uniscono-le-forze/. Siti molto seguiti, sicuramente letti da numerosi militanti italiani, come Europe Solidaire, Made in China Journal e altri in francese o in inglese, ne hanno scritto a più riprese, ma nessuno in Italia ha mai prestato loro orecchio). Il risultato di questa vasta ondata di repressioni è che, già molto prima della pandemia di Covid-19, in Cina è stato instaurato un clima di terrore antisindacale per cui è impensabile in questo momento una situazione di scioperi diffusi.

Nella sostanza l’articolo, per riassumere la lettura fin qui fattane, esalta la potenza dello stato cinese nel gestire l’economia e la sensibilità dimostrata dallo stesso nei confronti di un aspetto sociale come quello della povertà. Dipinge quindi una situazione in cui in Cina non si vede ombra di capitalisti cinesi, ma solo capitalisti stranieri le cui esigenze costringono il Partito Comunista, volente o nolente, a impedire l’organizzazione dei lavoratori. Di seguito passa a descrivere un paese che consegue successi meravigliosi, come le innovazioni che permettono di avere tanti servizi sul telefonino e consentono al sistema di vendita online cinese di superare quello statunitense. Dopo di che si accorge che in realtà un capitalista cinese c’è: è Jack Ma, il padrone di Alibaba, ma lo stato cinese lo combatte e porta tutto di nuovo sotto il proprio controllo. Infine ci dice che la Cina è un paese politicamente vivace, visto che i suoi lavoratori scioperano facilmente in massa. A questo atteggiamento sostanzialmente apologetico nei confronti di un regime capitalista criminale e sfruttatore Louçã premette qualche smilza riga di introduzione falsamente critica (“falsamente” perché lui stesso nel proseguito dell’articolo fa quello che invece critica nell’introduzione), aggiungendo poi qua e là nel testo alcune vaghe frasi isolate e puramente retoriche sull’autoritarismo o simili, a mio personale avviso con l’evidente intenzione di dare al tutto un improbabile quanto superficiale tocco “di sinistra”. Nessun accenno, neanche di sfuggita, alle centinaia di milioni di lavoratori immigrati interni brutalmente sfruttati e privi dei più elementari diritti; alle centinaia di operai, attivisti sindacali, compagni marxisti e femministe che oggi stanno marcendo nelle prigioni cinesi, spesso sotto tortura, o addirittura desaparecidos; agli abusi sistematici dei padroni cinesi e al loro indegno sfruttamento di masse enormi di lavoratori; al sistema di previdenza sociale a copertura minima e alle relative drammatiche conseguenze per questi ultimi; alle centinaia di migliaia di persone deportate dalle loro terre o costrette a lavorare con salari infimi in aree più ricche nell’ambito della “lotta alla povertà”; o alle centinaia di migliaia di persone di minoranze etniche sottoposte a repressioni indicibili, attraverso campi di rieducazione e lavoro forzato o sulla base di modelli di “lotta al terrorismo” ispirati a Guantanamo. Per non parlare dell’ormai quasi orwelliano sistema di controllo sociale, censura ecc. Tutte cose su cui Louçã non trova da dire nemmeno una parola perché, ne deduco, per lui nell’articolo di un militante di sinistra su economia e scosse sociali in Cina è invece più importante parlare dei successi delle piattaforme di vendita online.

china labor

In realtà, quello adottato dall’articolo che qui critico è purtroppo lo schema classico di approccio alla Cina adottato dalla maggior parte della sinistra non stalinista in Italia, e anche da molta di quella estera (i campisti/stalinisti esaltano invece direttamente aguzzini come Xi Jinping e Kim Jong-un con parole di esplicita approvazione). Ci si limita nella maggior parte dei casi a esaltazioni acritiche della potenza dello stato cinese, al massimo a denunce delle multinazionali che operano nel paese ma non dei capitalisti cinesi (se non di quelli, rari, che hanno qualche conflitto con lo stato, come Jack Ma), e non si manifesta alcun interesse effettivo per i destini dei lavoratori del paese, o dei militanti democratici/sindacali/di sinistra, con una rinuncia a priori a ogni atto o parola di solidarietà nei loro confronti. Tutto ciò viene regolarmente condito con qualche vuota e generica frase retorica sui lavoratori o sui metodi autoritari delle autorità cinesi, tanto per dare pigramente un tono di sinistra a contenuti che vanno nell’opposta direzione. Quello che è ancora più sconcertante è che questo avviene in relazione alla Cina, cioè non un piccolo paese di minore rilevanza politica sul quale può accadere di essere scarsamente informati, bensì la seconda potenza capitalista mondiale e il paese con la più vasta classe lavoratrice del mondo! Perché tutto questo? Per una degenerazione politica che porta a ritenere che “la Cina ci salverà dagli Usa” (con il classico salto dalla padella nella brace), come i campisti? Perché con un atteggiamento morbido nei confronti del regime di Pechino si tiene la porta aperta a una collaborazione con gli stalinisti quando risulta conveniente? Per un inconscio “razzismo di sinistra”, per cui quando l’oppressione e le repressioni colpiscono i cinesi si può sorvolare, mentre se riguardano europei o statunitensi si grida (giustamente) allo scandalo? O semplicemente per una pigrizia culturale e politica che porta a sospendere ogni approccio realmente critico dinnanzi a un paese-pilastro del capitalismo mondiale per il mero fatto che è guidato da un partito che si autodefinisce comunista? Probabilmente un misto di tutto questo. Visto il ruolo centrale della Cina e della classe lavoratrice cinese nell’ambito del capitalismo odierno, è auspicabile che un dibattito franco e aperto consenta di superare questi approcci.

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